La sola speme



Ci nutrimmo di lui come dell'aria
libera ed infinita
cui dà la terra tutti i suoi sapori.
La bellezza e la forza di sua vita,
che parve solitaria,
furon come su noi cieli canori.
Egli trasse i suoi cori
dall'imo gorgo dell'ansante folla.
Diede una voce alle speranze e ai lutti.
Pianse ed amò per tutti.

(Gabriele D'Annunzio, In Morte di Giuseppe Verdi)

Capitolo I.

La Spinetta

Le foglie formavano un tappeto scricchiolante che virava dal marrone dei castagni al rosso sporco della ruggine, e l'aria stava perdendo il tepore del giorno, per cedere il passo all'oscurità della sera. Carlo accelerò il suo passo, riparandosi la nuca con il colletto della giacca, e si trovò in breve tempo davanti alla casa di Cavalletti, un casolare dall'aria mesta e dinoccolata oltre il campo di Nanni: sperava che non fosse troppo tardi quella sera per presentarsi da lui, ma aveva dovuto aspettare di poter chiudere la bottega, e l'imbrunire nebuloso della campagna era sopraggiunto. Le giornate cominciavano ad accorciarsi.
Alzò la sua mano ruvida e bussò sul legno scuro ed umido della porta; attese per parecchi secondi prima che qualcuno gli venisse ad aprire, poi una donna apparve dietro l'uscio, e lo fissò con sguardo indagatore. Carlo la riconobbe perché la vedeva sempre a messa, era la moglie di Cavalletti.
- Si?-
-Sono Carlo Verdi, stavo cercando vostro marito - disse togliendosi il berretto in segno di rispetto. 
-Mio marito è fuori per delle commissioni, so bene chi siete Carlo, per cosa avete bisogno di lui?-
Carlo annuì. - Stamani sono andato dal Guizzo, gli ho preso quella spinetta vecchia e arrugginita per poco, per il mio ragazzo.-
La donna nel sentir nominare il ragazzino abbozzò un sorriso, e schiuse un poco di più la porta.
L'ultima volta che era stata a messa era quasi scoppiata a ridere vedendo la portata del ceffone che il parroco aveva assestato a quel chierichetto trasognato. Il giovane Verdi si distraeva al suono dell'organo e dimenticava di portare il calice e gli altri arnesi necessari allo svolgimento della funzione.
-Giuseppe?- Chiese con una nota di tenerezza e di simpatia nella voce.
-Ha passione per la musica- fece l'uomo con un brillio nello sguardo e l'espressione compiaciuta. La donna aguzzò i suoi due occhietti, troppo vicini tra di loro, e che irrimediabilmente con quella vicinanza donavano al suo sguardo un che di pungente : -ecco allora cosa lo distrae durante la messa.-
-Ah si- rise Carlo – l'organo.-
-Il parroco lo strattona non poco.-
-Fa bene- disse lui prontamente acquistando nella voce una sorta di autoritarismo- la messa è importante, per questo gli prendo la spinetta, così la smetterà di farsi distrarre in chiesa, e potrà suonare finché vuole- era una bugia, la comprava perché sarebbe stato utile a tutti che Giuseppe potesse suonare in casa.
  • Appena mio marito torna ve lo mando.-
  • Grazie.-
  • A presto Carlo.-
Carlo si rimise il berretto e si diresse a passi lenti verso casa.
Il cielo aveva iniziato a striarsi delle ombre scure della sera, e un refolo di vento faceva stormire le fronde, come una donna che si fosse passata le dita fra i capelli. Qualche foglia ancora di un verde estivo calava volteggiando al suolo. L'autunno era triste, e non riuscì a fare a meno di pensare a come quella stagione rispecchiasse l'atmosfera della sua famigliola. Quella spinetta avrebbe rappresentato tante cose: dalla passione di suo figlio a, forse, l'illuminante sorriso che sarebbe tornato a splendere sul viso di sua moglie. Da quando era morta la loro bambina Luigia era diventata più cupa della notte. Piangeva, non dormiva, aveva sempre il volto sciupato e sofferente. L'unica volta che Carlo aveva rivisto negli occhi della moglie un minimo luccichio era stato quando un mese prima avevano chiuso l'osteria presto ed erano andati a prendere Giuseppe in chiesa, dove stava facendo ancora lezione con Baistrocchi. Luigia aveva finito di filare e lo aveva accompagnato; era entrata, e sentendo suonare il suo bambino aveva sgranato gli occhi e il suo volto aveva assunto un colore fanciullesco. - Ma è proprio il nostro Giuseppe che suona?- Aveva esclamato con enfasi.
Carlo a quel punto si era convinto. Aveva già fatto un voto alla Madonna quando Luigia e il piccolo Giuseppe di appena un anno si erano rifugiati nel campanile di San Michele, per sfuggire all'esercito degli austriaci venuti a compiere razzie nelle campagne intorno a Roncole; le aveva promesso che avrebbe voluto e fatto il meglio per suo figlio, scampato per miracolo a quell'orda di soldati: il gesto di portare a casa uno strumento col quale il piccolo di casa si sarebbe esercitato avrebbe però esaudito anche la necessità di rivedere sul volto della moglie far capolino di nuovo il fulgido colorito della fanciullezza.
Così quella stessa mattina era andato dal Guizzo e aveva contrattato un prezzo per quella spinetta che lui aveva notato ai margini della sua sala tempo addietro, coperta con un lenzuolo grigiastro come se fosse stato il cadavere di un morto. - Che ne fate?- Gli aveva domandato la prima volta.
- Nulla- gli aveva risposto il Guizzo alzando le spalle con una certa nota di rassegnazione nella voce – io ci suonavo, ma nessuno più la degna del minimo sguardo, la copro se no mi si impolvera.-
Meglio a casa Verdi suonata da un bambino che tenuta in un salotto come se fosse stata la reliquia di un santo incompreso.

Cavalletti fissò la casupola dell'oste, il suo tetto umile, con pendii spioventi posati alla fronte pacata dalla quale scendeva il volto sereno. Bussò, e subito Carlo Verdi venne ad aprirgli; era un uomo alto, con due spalle molto larghe e gli occhi mansueti.
  • Grazie Cavalletti di essere venuto.-
  • Prego Verdi.-
  • Venite- e si scansò per farlo entrare. Non appena ebbe varcato la soglia Cavalletti si sorprese di riscontrare nell'abitazione dell'oste un'oscurità quasi notturna nonostante non fossero nemmeno le tre. Alle finestre c'erano delle tende di tessuto spesso e scuro, e conferivano all'abitazione un aspetto tetro, nonostante da fuori gli fosse sembrata di tutt'altra armonia.
Verdi vedendo la sua reazione un poco scettica sulle tende scure mugugnò che a sua moglie dava fastidio la luce. Carlo Verdi a Roncole godeva di un certo prestigio, era l'oste ed era un uomo onesto, un gran lavoratore. Sapevano tutti però che sua moglie continuava a piangere e a star male dopo la dipartita della bambina, nata e poi morta dopo un paio di mesi. Madri di campagna partorivano dieci, dodici figli e ne riuscivano a far rimanere vivi sette o otto, almeno un paio morivano sempre. Era la prova della vita. Il male di vivere come quello che aveva la moglie dell'oste però era più grave. Forse era per questo che la casa nel suo interno fosse così trasandata, la donna non riusciva a far fronte ai suoi doveri quotidiani.
Ad un tratto gli venne incontro il ragazzino che aveva predetto la morte a Don Masini. Giuseppe Verdi. Al paese si era vociferato un bel po' riguardo quel fatto strano e sciagurato: dopo l'ennesima strattonata da parte del sacerdote che lo aveva ridestato dai torpori provocatogli dal suono dell'organo, il ragazzino lo aveva maledetto. Gli aveva augurato che lo colpisse un fulmine, e così era successo! Il povero Don Masini era morto colpito da un fulmine.
Il ragazzino aveva la fisionomia del padre, lo stesso profilo in fieri, un brillio quasi da rapace dentro gli occhi scuri e una linea degli zigomi scoscesa come un dirupo, ma tutta quella compattezza della sua fisionomia venne trasformata e illuminata dall'entusiasmo febbrile dalla quale era pervaso: sembrava un cucciolo che fremeva per il pasto quotidiano.
Carlo gli mostrò la spinetta.
  • Cavalletti quella è l'affare.-
    Il cembalaro si mise a fissare la spinetta, e provò a suonare qualcosa. Vecchia scordata e brutta. Avrebbe dovuto fare un lavoro molto lungo quel pomeriggio.
  • Si può mettere a posto Verdi, non temete.- Carlo sorrise e il figlioletto urlò dalla gioia.
  • St! Giuseppe taci una buona volta- fece suo padre sopprimendo l'esplosione di gioia del ragazzino.
  • Vuoi darmi una mano ragazzo?-
  • Si! Si!- Fece entusiasta Giuseppe.
  • Bene allora vieni qui e tienimi i ferri del mestiere, mi dirai quando la nota ti sembra intonata.-
    Quel pomeriggio Giuseppe Verdi fu un aiutante solerte e prodigo di confidenze. Gli raccontò che con l'aiuto di quella spinetta avrebbe composto grandi opere e una messa per il Papa. Il padre un certo punto gli disse di smetterla, che poteva dargli fastidio, ma lui alzò la mano con un sorriso aperto sul volto. L'entusiasmo e l'energia del ragazzino erano davvero contagiosi. Quando ebbe terminato il lavoro Carlo gli offrì un bicchiere di vino e lui non lo disdegnò; a quel punto Giuseppe iniziò a suonare una musichetta dal ritmo festoso per provare il suo nuovo strumento, e il cembalaro cominciò a battere il tempo con il piede.
  • E' bella questa musica Beppino- disse Cavalletti.
  • E' mia- sorrise il ragazzino.
    Il cembalaro si voltò verso l'oste e gli rivolse uno sguardo interrogativo: - è davvero sua? L'ha scritta lui?-
    Carlo alzò le spalle: - così dice, sapete Cavalletti, io che ne posso sapere? So che mi piace, per questo gli ho comprato quella spinetta.-
    Cavalletti rimase ad ascoltare il giovane Verdi fino alle sei inoltrate, poi però decise di andarsene, l'organo del paese di Busseto l'attendeva. Prese un coltellino e alzatosi espresse la volontà di incidere una dedica personale a Giuseppe. Il bambino sgranò gli occhi e si accovacciò al suo fianco per vedere cosa stesse scrivendo.
  • Ecco fatto- disse alla fine alzandosi.
  • Cosa avete scritto?- Chiese Carlo.
  • Ve lo leggo. Da me Stefano Cavalletti fu fato di nuovo questi saltarelli e impernati a corame, e vi adatai la pedaliera che io ci ho regalato come anche gratuitamente ci ho fatto di nuovo i saltarelli, vedendo la nuova disposizione che il giovinetto Giuseppe Verdi d'imparare a suonare questo istrumento, che questo mi basta per esserne del tutto soddisfatto.-
Carlo gli chiese più volte cosa gli dovesse per il disturbo, ma lui alzò le spalle e gli rivolse un'espressione serena e solare.
  • Se il ragazzo dovesse diventare qualcuno anche io così avrò dato il mio contributo.-

II. Il mecenate

Carlo varcò la soglia di quel salone lussuoso e fissò il soffitto con estrema soggezione. La casa di Barezzi era l'emblema del lusso per lui, lo era sempre stata. Nell'atrio i riflessi della luce mattutina venivano propagati ovunque grazie a quello specchio regale appeso alla parete, mentre a loro volta si scontravano con i lampi di luce dei cristalli del lampadario, che troneggiava imperioso dal soffitto azzurrino; tutta quella luce rendeva ancora più evidente la squisita eleganza degli arredi, mentre un paio di sgabelli, posti vicino alla specchiera dell'entrata, ostentavano trame multicolori di nappine e rasi. Chissà al piano superiore cosa poteva possedere, vista soltanto l'eleganza dell'atrio. Di solito si recava da lui con le sue ceste di vimini da riempire con della merce al suo magazzino, poco lontano dalla casa padronale, ma quel giorno la questione per cui necessitava del ricco filantropo era ben differente. Nessun altro a Busseto era più adatto di Barezzi per capire chi fosse talentuoso e chi non lo fosse in fatto di musica. Oltre a essere un bravo dilettante strumentista aveva offerto la sua residenza come sede della società filarmonica, e quindi, si poteva dire, che fosse la personalità più di spicco a Busseto per certe questioni.
La sera quando Giuseppe si metteva a strimpellare con la sua spinetta Luigia cominciava a ridere come faceva un tempo, i suoi occhi baluginavano come quando era ragazza; si sentiva rinfrancato dall'effetto ristoratore che aveva avuto su sua moglie la musica di Giuseppe, e questo era bastato fino a quel momento.
Il Baistrocchi però lo aveva preso da parte una domenica, dopo la messa, e gli aveva detto che non sapeva più cosa insegnare a suo figlio. - Carlo ho esaurito gli argomenti con Peppino, fra un po' c'è il caso che lui incominci a insegnare a me!- aveva detto stirando gli angoli della bocca con fare pensieroso e rassegnato; non che gli costasse ammettere il talento del bambino, anzi, era piuttosto la rassegnazione della consapevolezza di non aver più nulla da donare che rendeva il Baistrocchi un poco melanconico. Poi, con un fare mesto ma piuttosto insinuante, aveva suggerito di trovarsi un altro maestro di musica, magari nella vicina Busseto. Carlo si era grattato il capo pensieroso: da chi avrebbe potuto mandare Giuseppe a studiare musica?
Aveva salutato e ringraziato Baistrocchi, e se n'era andato al lavoro, rimuginando su quell'affare, e continuando incessantemente a cercare una soluzione a quel problema. Non era poi così grave che Giuseppe avesse imparato già tutto, poteva continuare a suonare l'organo durante la messa, e poteva suonarsi la spinetta a casa, fino a quando non sarebbe stato abbastanza grande da potergli dare una mano in bottega. Era seduto proprio al tavolo dei conti, una mattina d'inverno, quando il suo sguardo si era fissato su due bottiglie di liquore che teneva nel disimpegno dietro il bancone, e attraverso un rigagnolo di pensieri lento ma inesorabile aveva collegato tutti quegli elementi: il lavoro alla bottega, le bottiglie di liquore, le ceste di vimini, la lunga strada da Roncole a Busseto per fare rifornimento di liquore, la casa padronale Barezzi: Antonio Barezzi.
Un'illuminazione mattuttina che aveva finito per colmarlo di frenesia e nervosismo, ma che lo aveva decisamente convinto a tentare quella strada non solo per rifornirsi di liquore.
Barezzi avrebbe potuto inserire suo figlio e farlo studiare con un grande maestro se avesse ritenuto che effettivamente in Giuseppe ci fosse dell'ingegno per la musica.
Ad un tratto proprio Barezzi apparve sulle scale, interrompendo così i suoi pensieri. La sua figura slanciata possedeva nel portamento qualcosa di languido e elegante, come la luce che feriva i vetri di quel pomeriggio primaverile.
- Salve Carlo – fece con voce gioviale scendendo gli ultimi scalini, brandendo con la mano sinistra il corrimano di legno chiaro e stuzzicandosi con l'altra i suoi bei baffi color cenere. Gli occhi possedevano il brillo dei fanciulli, quello che avevano tutte le persone curiose che Carlo aveva conosciuto nella sua vita, e possedeva mani bianche con dita affusolate e unghie sempre corte e ben definite.
  • Signor Antonio ha un minuto?-
  • Barezzi gli sorrise: - anche due.-
  • Oggi son venuto a prendere alcuni dei vostri liquori che della gente di Roncole mi ha ordinato, ma soprattutto a parlarvi del mio figliolo.-
  • Giuseppe? Come sta? Ora dovrebbe avere all'incirca l'età della mia Margherita- disse Barezzi alzando le sue sopracciglia cespugliose dello stessa tonalità di grigio dei baffi.
  • Ha undici anni.-
  • Crescono che non ce ne accorgiamo- sorrise Barezzi.
  • Giuseppe è bravo a suonar l'organo, l'organista di Roncole gli ha dato lezioni fino ad ora, ma è venuto a dirmi che non sa più cosa insegnargli, e che dovrei farlo studiare con qualcuno più qualificato di lui.-
Barezzi increspò la fronte con un certo stupore. - Baistrocchi è bravo.-
  • Io queste cose non le so signor Antonio, so quello che dice Giuseppe, e lui dice che è stato un bravo maestro, poi mi piace la musica che scrive mio figlio ma...-
  • Compone?- Esclamò Barezzi con curiosità.
  • Si, scrive musica, le suona la sera per me e mia moglie. Io vorrei che lo ascoltaste, voi potete dirmi se son nostre fantasie da contadini- esclamò infine tenendo stretto fra le mani il suo berretto con atteggiamento umile.
  • Lo ascolterò molto volentieri Carlo, venite da me quando potete, anche domani se siete a Busseto per affari.-
  • Davvero domani?-
  • Si domani, poi, una volta che l'avrò ascoltato io, lo farò sentire da Provesi che dirige qui i musici di Busseto.-
  • Grazie signor Antonio.-
  • Ditegli Carlo che però voglio sentire una cosa sua.-
  • Certo, certo, se per voi va bene saremo qui nel pomeriggio tardo, chiudo l'osteria presto e ve lo porto qua.-
  • Va bene Carlo, a domani.-

Giuseppe appena ebbe varcato la soglia di quella casa fu invaso dalla fragranza dei gigli che inondavano l'atrio, impreziosito dai giochi di luce, ma quando entrò nel salone una sensazione di vertigine ebbe il sopravvento su di lui. Una fortezza, il maniero di un signore che aveva mille tesori, e mille luci. Fissava le pareti e i lampadari pendenti dal soffitto con la bocca socchiusa dalla meraviglia e dallo stupore, e solo quando il domestico gobbo gli venne incontro indicando a suo padre dove Barezzi li avrebbe raggiunti fu distolto dall'ammirare tutto quello sfarzo. Suo padre sorrise quando l'uomo gli ebbe dato le spalle e gli sussurrò: - la gobba di quest'uomo ci porterà fortuna.- Giuseppe sospirò. La fortuna gliel'avrebbero portata le sue mani se fosse riuscito a non farsi prendere dal panico, ma poi scosse il capo e alzò gli occhi sul servitore gobbo che stava avanzando davanti a loro con un'andatura faticosa e pericolante: possedeva qualcosa di intimamente poetico e patetico nel modo che aveva di zoppicare, la figura tristemente fragile e asimmetrica gli ispirò una certa pena, ma allo stesso tempo un forte rispetto. Appena sarebbe tornato a casa ci avrebbe scritto una ballata. Poi i suoi occhi furono investiti dalla figura quasi luminescente di una ragazzina vestita con un abito dal colore perlaceo e dalla folta chioma corvina. Gli occhi della bambina, all'incirca della sua stessa età, erano smeraldini, e lo stavano scrutando con vivida curiosità. Alle sue spalle un uomo vestito con un completo color vinaccia e due baffi eleganti fece la sua comparsa. Gli occhi erano uguali a quelli della ragazzina, anche se contornati da una fitta ragnatela di rughe.
  • Eccolo qui il nostro giovane compositore.- La voce dell'uomo era estremamente giovanile, somigliava a quella di un fanciullo.
  • Ecco, questo è Giuseppe- fece suo padre mettendogli una delle sue manone sulla spalla.
  • Benissimo, oggi Margherita ascolteremo questo ragazzo che compone musica e ha la tua età- disse Barezzi con dolcezza a sua figlia, lei annuì inclinando il capo in maniera soavemente civettuola, distogliendo gli occhi da Giuseppe.
  • Giuseppe- gli fece Barezzi – tuo padre mi ha detto che componi, e il tuo maestro parla molto bene di te.-
  • Grazie per avermi dato l'opportunità di farmi ascoltare signor Barezzi.-
  • Vieni ragazzo, vieni che andiamo in salotto, dove c'è il pianoforte.- La sua voce gli parve calma e placida, come il suono dei giunchi in riva al fiume.
    Giuseppe e Carlo seguirono il padrone di casa avviarsi in un piccolo corridoio, poi varcarono la soglia di una stanza dal pavimento di marmo rossastro e dal soffitto bianco, mentre le pareti erano coperte da carta da parati bluastra arricchita da motivi di fantasia; esattamente di fronte all'entrata della stanza era appeso uno splendido quadro raffigurante un bosco investito dalla luce del tramonto. Al centro della sala troneggiava un magnifico pianoforte a coda, e a Giuseppe parve una persona in carne ed ossa. Sorrideva in modo insidioso, e sembrava perfino aguzzare i suoi occhi invisibili scorgendo il figlio dell'oste di Roncole che era dritto come un fuso di fronte a lui. Il signor pianoforte sprezzante gli stava sussurrando frasi di sfida. “Vedremo se mi saprai adoperare come si deve ragazzino”.
Giuseppe sospirò e si sedette davanti alla sua tastiera. Appoggiò la sua mano estesa e ruvida su quei tasti lisci e bianchi come la pelle di una ninfa silvestre e fissò il nero lucido dei tasti più piccoli, quelli più infimi e difficili da premere in velocità. Il pianoforte anche se lui poteva toccarlo nella sua parte più intima, quella dedita alle emozioni, il suo cuore, non si sciolse, continuava a tenergli gli occhi conficcati perfino dentro la pelle, con vivida diffidenza. Barezzi si era accomodato con in braccio sua figlia su una poltroncina di velluto color oliva di fianco alla finestra, mentre suo padre era rimasto all'entrata del salone, appoggiato allo stipite della porta, con il berretto stritolato fra le mani. Strinse i pugni sulle ginocchia, poi volse lo sguardo verso Barezzi, fu inondato da quella luce grigiastra che sembrava quella del cielo nuvoloso appena prima di squarciarsi e di aprirsi ad offrire il sole estivo. Stiracchiò le dita e le posò di nuovo sul pianoforte. Iniziò.
Con foga, aggressività, e un poco di impazienza.

  • Ferdinando, il ragazzo scrive qualcosa di grezzo ma che possiede un certo nerbo, possiede un talento e soprattutto una passione che mi fa ben sperare- esclamò Barezzi ponendo il suo mantello sul divanetto perlaceo della sala.
Provesi, il maestro di cappella e organista di Busseto, sospirò energicamente e aguzzò quei suoi due occhi già di per sé minuscoli.
  • Signor Antonio se mi direte voi di far lezione al ragazzo io lo farò, non ne dubitate, anche se il ragazzo è una capra.-
  • Non è una capra Ferdinando- sorrise Barezzi consapevole, ancor prima di entrare nell'abitazione del validissimo musicista, del suo proverbiale carattere scorbutico e indisponente. Ferdinando Provesi era il miglior musicista che conoscesse, e lo aveva aiutato ad imporsi alla cittadinanza come maestro di musica nonostante non andasse a genio a molti proprio a causa di quel suo essere tagliente come un'accetta. C'era stata poi anni prima una riprovevole diceria su un suo arresto in seguito ad un furto nel duomo di Sissa, ma vi era da scommetterci che quella fosse una fandonia inventata di sana pianta da qualcuno scottato da una delle proverbiale uscite del maestro.
  • Capra, caprone, cane...Che dir si voglia.-
Barezzi gli rivolse un'espressione bonaria. - Sapete io penso di capirne un poco.-
Provesi annuì: - non volevo di certo offendere il vostro giudizio Barezzi, era solo per dirvi che vista la gratitudine che vi devo non è necessario che millantiate qualità che non esistono, d'altronde il figlio di un oste che ha fatto lezione fino ad ora con l'organista di Roncole...- Gli occhi di Provesi erano scuri e piccoli, ma possedevano la forza delle voragini che si potevano ammirare da altitudini notevoli. Prima che parlasse da quelle due fessure ci si poteva aspettare anche la fine del mondo, poi a volte, solo con alcuni, moderava i toni; ma anche se con le labbra usava termini diplomatici loro non rabbonivano mai quello che diceva. Erano spietati.
  • Il ragazzo ha del nervo quando suona, e compone, oltretutto il povero organista di Roncole è morto proprio qualche giorno fa.-
  • Pace all'anima dell'organista- replicò senza un particolare trasporto Provesi. Gli occhi non esprimevano il minimo rammarico, mentre la pelle cascante della guance rimaneva immobile e ferma.
  • Comunque Ferdinando vedrete che non mi sbaglio, il ragazzo possiede qualcosa.-
Questa volta fu Provesi che sorrise, ma un sorriso che se avesse potuto tramutarsi in sapore avrebbe avuto quello di una cibaria andata a male.
  • Come vi dicevo gli farò lezione.-
  • Ho detto al padre del ragazzo di farlo trasferire in una pensioncina qui di Busseto, avrei potuto prendermelo in casa, ma preferisco vedere come se la cava il primo anno- spiegò Barezzi incrociando le braccia e fissando fuori dalla finestra, facendosi distrarre dai cinguettii dei passeri.
  • Quanti anni ha il ragazzo?-
  • Sui dieci mi pare.-
  • Si può fare ancora qualcosa- la voce esprimeva una speranza che dallo sguardo non si percepiva.
  • Su Ferdinando qualcosa potrà essere fatto, il padre ci tiene che frequenti il ginnasio con Don Seletti.- a quelle parole Provesi divenne immediatamente scuro in volto.
  • Il prete? Me e il prete?-
Barezzi annuì: - ricordate Ferdinando? Avete appena detto che mi dovete gratitudine- sorrise consapevole di come quella sorta di piccolo sotterfugio che aveva adoperato per strappargli quella promessa potesse avere l'effetto di mettere Provesi in una situazione d'insofferenza. Si levò dal divano e riprese in mano il suo cappotto.
  • Me e il prete!- Era davvero seccato.
Barezzi era un buon cristiano, ma aveva sempre appoggiato nel paese anche i laici e gli atei, come Provesi, se li riteneva persone meritevoli e di umanità. Questo a volte gli aveva attirato le critiche dei bigotti del paese, dall'altro lato, quando aveva a che fare con gente irremovibile come Provesi, si ripeteva quanto fosse difficile stare in mezzo agli uni e agli altri. Ai bigotti per la loro ristrettezza mentale, agli atei per la loro mancanza di flessibilità, forse uguale difetto in entrambe le fazioni.
  • Il prete gli insegnerà il latino, voi il contrappunto.-
  • Sperando che Seletti non mi faccia infuriare.-
  • Non temete, vedrete che voi farete il vostro lavoro, e Seletti il suo, nessuno pesterà i piedi a nessuno- e con un sorriso rassicurante, stuzzicandosi i suoi bei baffi color cenere uscì dalla porta.








III. Il Maestro di musica

Giuseppe uscì dalla stanza, il Pugnatta era giù nella sala centrale della sua pensione a fare i conti. Tutti i giorni quell'uomo faceva i conti, Giuseppe pensava che avesse davvero una vita assai vuota se non faceva altro che contare i soldi che possedeva. Diceva di fare il calzolaio, ma aveva poi davvero tempo per le scarpe?
  • Buondì Giuseppe- lo salutò in tono gioviale. Era un uomo corpulento e sosteneva di essere un gran appassionato di musica. Ogni tanto lo braccava dicendogli che lui era un gran conoscitore e che gli faceva piacere aver qualcuno in pensione col quale poter discutere di musica. Avrebbe evitato come la peste di fare due chiacchere con lui, già quelle della mattina precedente erano bastate. Suo padre si era raccomandato di essere educato e solerte, non fare l'arrogante e rispondere sempre in tono gentile. Se si era dato così tanta pena per raccomandargli tutte cose ovvie evidentemente la sua conoscenza del Pugnatta doveva essere stata piuttosto approfondita.
  • Salve signor Alfredo.-
  • Ti stai recando dal maestro Provesi?-
  • Si.-
  • Salutamelo calorosamente, siamo molto amici.-
    Giuseppe annuì e uscì. Suo padre pagava ben trenta centesimi al giorno per mantenerlo a Busseto in quella pensione, e il minimo che poteva fare era dimostrarsi il miglior allievo che questo Provesi avesse mai avuto. Diligente, intuitivo, capace...
  • Era stato Barezzi a raccomandarsi con lui in questo caso. “Sii sempre mite e solerte, non contraddirlo mai, e se non capisci non digli mai che si è spiegato male, digli solo che non capisci tu.”
    Che questo Provesi fosse davvero così rigido e dal carattere impossibile come gli aveva accennato Don Seletti un paio di giorni prima? Il suo maestro di latino gli aveva riferito che diceva di fare anche il poeta, ma che, nonostante una certa propensione a scrivere in rima, fosse tutta cartaccia inutile. Il Pugnatta invece, una delle rare volte in cui aveva riferito cose di un certo interesse, sosteneva che Provesi avesse fatto circolare per Busseto parecchie satire aventi per soggetto i preti della Fabbrica, in particolare proprio Don Seletti, e il suo gusto per la musica scadente e noiosa. Chissà che personaggio era questo Maestro di cappella...Ma a Giuseppe non interessava quello che in paese si raccontava di questo maestro, non voleva dare peso a chicchere che non gli avrebbero recato nessun beneficio, e si voleva esclusivamente dedicare alla musica. Solo a quella.
    Tutti quei pensieri colmarono il tempo del suo tragitto, e lui si trovò di fronte alla casa del maestro in un tempo che gli parve molto più breve di quello preventivato. Era una bella casa, con le mura color biscotto, un bel tetto rosso, e con un curato giardinetto davanti. Suonò il campanello e venne ad aprirgli una donnina anziana, con gli occhi cerulei e l'abito di velluto rosso.
  • Sono Giuseppe Verdi, sono venuto per la lezione con il Maestro Provesi- disse con tono cristallino.
  • Si, vieni. Il maestro è con un altro allievo, puoi aspettare in salotto.-
  • Grazie.- Entrò nell'atrio di quella villetta elegante e la donna gli indicò una sedia dove aspettare. Non era di certo la casa di Barezzi, ma era stata arredata con molto gusto: le pareti color avorio ospitavano una gran quantità di ritratti, la maggior parte di cantanti, probabilmente. Giuseppe non attese molto, dopo alcuni minuti apparve sulla soglia dell'atrio un uomo alto, con i capelli neri come l'inchiostro e lo sguardo feroce. Le sue labbra erano una linea rossa appena sopra il mento e il naso era enorme, ma conferiva al suo volto ancora di più quell'aria minacciosa.
  • Sei Giuseppe Verdi?- Chiese con voce intrisa di sufficienza.
  • Si maestro- rispose lui prontamente balzando in piedi.
  • No, non è ancora il tuo turno, aspetta pur qui, intanto tieni questo- disse porgendogli un volume dalla copertina ocra.
  • Cos'è?- Domandò Verdi.
  • Un po' di cultura, così la tua attesa non sarà vana.-
    L'uomo scomparve di nuovo, e Giuseppe aprì il volume.
    Storia della musica. Il maestro Provesi non sembrava un uomo amabile, anzi gli aveva dato l'impressione di essere piuttosto scocciato. Forse quel giorno gli era pure morto il gatto o chissà.
    Provesi riapparve dopo un'ora accompagnato da un ragazzo alto e dinoccolato, con occhiali spessi come fondi di bottiglia, una capigliatura bionda e lo sguardo spento.
  • Mi raccomando Ruggiero, fammi un buon lavoro.-
  • Certo maestro, già stasera mi metto all'opera.-
    Il tono di Provesi era stato fermo ma non antipatico, e il ragazzo gli aveva risposto prontamente.
  • Ecco qui Giuseppe Verdi, su entra.-
    Il ragazzo che stava uscendo non lo degnò del minimo sguardo e uscì. Giuseppe fece finta di nulla ed entrò nello studio del maestro.
    Le pareti erano rosso carminio con un disegno stilizzato raffigurante un'arpa che si ripeteva sistematicamente, mentre un pianoforte a mezza coda, decisamente più umile e dallo sguardo più bonario rispetto a quello di Barezzi, sostava al centro della sala. Quel pianoforte gli strizzò l'occhio. Giuseppe si rallegrò nello scorgere almeno un volto amico quel giorno. Di fronte a lui c'era un tavolo di legno molto bello, sul quale stavano spartiti penna e calamaio, poi nella parete di fronte alla porta una biblioteca di tutto rispetto ospitava una quantità di volumi che avrebbe potuto rasentare il migliaio, rifletté ammirato Giuseppe.
  • Allora, intanto diciamoci subito che confido estremamente poco in te come allievo- disse Provesi chiudendo la porta dietro di sé. Quella frase ebbe l'effetto di un secchio di acqua gelida versato sulla sua testa.
  • Scusate?-
  • Ho promesso a Barezzi che ti avrei fatto lezione, ma dubito molto del tuo talento, non dubito che fra un poco mollerai, comunque procediamo, siediti al piano e fammi sentire come suoni.-
  • Che vi suono?- Balbettò Giuseppe.
  • Che sai suonare?-
  • Ho un po' di cose mie.-
  • Per carità! Fammi sentire qualcosa, che ne so, di Bach.-
  • Non ho con me nulla di Bach.-
    Provesi aguzzò i suoi occhietti di nera ossidiana e si diresse verso gli scaffali sulla parete centrale, si stirò e afferrò un volume dalla copertina rossastra.
  • Ecco qui.-
  • Ma io non le conosco.-
  • Un po' di prima vista.-
    Giuseppe si sedette al piano. Che disdetta cominciate la prima lezione con un disastro, nella prima vista era davvero scadente.
  • Maestro non le posso far sentire qualcosa di mio?-
    Provesi tacque, si sedette al suo fianco davanti al pianoforte ed emise una sorta di grugnito, un suono che svelava disprezzo e impazienza: mentre contraeva il viso Giuseppe notò evidente l'ossatura del suo volto sotto la carne morbida e flaccida.
  • Ragazzino suona Bach o fuori di qui.-
    Giuseppe sospirò. Sarebbe stata una disfatta. Iniziò a suonare, e il risultato fu davvero terribile. Provesi si appoggiò allo schienale foderato di velluto della sua poltroncina e cominciò a massaggiarsi la fronte con la sua mano candida e dalle dita affusolate.
  • Sei un disastro.- Sentenziò alla fine con una calma che sapeva di preambolo della tempesta.
    Giuseppe sospirò, non poteva terminare quella sua esecuzione di Bach tanto deludente facendosi cacciare da quel maestro. Doveva inventarsi qualcosa. Cominciò a suonare la ballata del gobbo. Ovviamente il maestro si sarebbe infuriato per la sua insolenza, ma poi magari qualcosa lo avrebbe fatto riflettere sulla possibilità di continuare a fargli lezione.
    Provesi rimase muto per tutta la durata dell'allegra canzoncina. Continuava a tenere chiusi gli occhi e a massaggiarsi la fronte come segno di estrema frustrazione, ma poi, molto lentamente, si tolse la mano dalla fronte e l'appoggiò al suo ginocchio. Strizzò gli occhi e attese.
  • Cos'è?- Chiese rudemente dopo che Giuseppe ebbe terminato.
  • L'ho chiamata la ballata del gobbo.-
    Provesi si prese qualche minuto prima di esprimersi a parole.
  • Le mani sono impostate male.-
  • Perché?- Chiese ingenuamente Giuseppe.
  • Sono impostate male, le tieni piatte, mentre invece devi sempre pensare di avere quasi un'arancia sotto di esse, le dita curve, e le braccia con meno tensione possibile, non stai seminando i campi, poi, riguardo alla ballata...- Di nuovo qualche secondo di attesa – la ripresa è banale, la melodia principale ha qualcosa di interessante ma va rivista da capo a fondo per ingentilirla, e bisogna che abbia un inizio uno sviluppo e una conclusione, fatta come l'hai fatta tu sembra solo la conclusione di qualcosa mai cominciato.-

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